Record Store Day 2011: circostanze e parentesi in ordine sparso

comprati un cazzo di disco, una volta tantoL’ultimo CD che ho comprato è stato non molto tempo fa (relativamente ai miei tempi di acquisto di un CD) ed è stato per caso, a Transmission, Roma. Poteva essere gennaio. Mi ci ero ficcato dentro nell’attesa che aprisse un altro negozio lì vicino, un negozio di elettronica. Mi serviva un cavo pin-jack/RCA e il tipo era ancora chiuso, quindi ho deciso di fare un giro a Transmission per farmi un’ingozzata di titoli in bella esposizione di vinili rarissimi (a prezzi ovviamente stellari), DVD difficilmente reperibili, cofanetti e special edition e tutto quello che puoi trovare in un negozio di dischi. Sfogliando poi i sample delle copertine (fotocopiati in bianconero, in quegli espositori in legno che fanno di un negozio di dischi un bel posto anche dal punto di vista dell’arredamento) mi sono imbattuto in una roba su cui era scritto a penna “real underrated U.S. grunge”. Era (ed è) un disco di tali Dirt Fishermen, il disco si chiamava (e si chiama tuttora) Vena Cava, e guardando sul retro ho potuto notare il nome di Jack Endino (mi sembra inutile ricordare chi sia ‘sto tipo). Anno di pubblicazione: 1992. Quindi “underrated”, “grunge”, “Jack Endino”: forme di nostalgia, curiosità, richiami di tutta l’educazione culturale e sentimentale eccetera eccetera. I Novanta, l’Arcadia di quando si era molto più stupidi, veri, autentici, malvestiti, senza soldi, pieni di brufoli, intimamente sfigati e però speciali, incazzati senza un motivo apparente, felici, avidi di vita, stronzi potenziali, musicisti in cover band improbabili destinate ad evolversi in modi che nessuno avrebbe mai potuto immaginare, clienti per corrispondenza di Nannucci (eh, cazzo: gli acquisti cumulativi su Nannucci, i CD dei CCCP a settemila lire con dei refusi giganteschi sui titoli in copertina [tipo: EMILIA PARANDICA] e le cassette dei Cure con lo spigolo tagliato – gli ordini su Nannucci: pura archeologia, scavi nella Memoria, carotaggi nel Ricordo. Nannucci: in pieno centro a Bologna, al suo posto adesso c’è un outlet Melbookstore con tutti i libri al cinquanta percento, e per come vanno le cose possiamo dirci fortunati che non ci sia una fottutissima banca o un’agenzia di scommesse). Non fosse bastato il richiamo all’Epoca Felice, il CD costava dieci euro. L’ho preso al volo: era l’unica copia disponibile nel negozio – lì da chissà quanti secoli – e con un misto di sconcerto e meraviglia ho potuto notare che l’etichetta “real underrated U.S. grunge” non era stata applicata posticcia sulla fotocopia, ma era incollata con una pecetta direttamente sulla copertina originale del CD.

Questa introduzione non serve a nulla se non a specificare il fattore della casualità. Entrare in un negozio di dischi e imbattersi in qualcosa che non fa altro che metterti curiosità e voglia di scommettere con te stesso: “Va bene, lo compro. Mi piacerà? Chissà. E se poi mi fa schifo? Ho solo buttato dieci euro ma ho comunque conosciuto qualcosa a cui forse non sarei mai arrivato.” Tra l’altro: Vena Cava è un disco di vero grunge, non pesante né tantomeno noise ma con i suoni davvero al posto giusto, le voci femminili un po’ Pixies e i distorsori alle chitarre modello Nevermind, ed è davvero “underrated”, tant’è che se cerchi Dirt Fishermen su google ti escono pochissime pagine, e su youtube ci sono tipo DUE video in concerto, di cui uno è questo:

(Bene: va da sè che il tempo – e il Pubblico/Critica e tutto quello che in certi casi concorre a decidere se si passa alla Storia o se si rimane camerieri nei Burger King – non ha dato ragione ai Dirt Fishermen, e tutto quello che mi viene da dire a tal proposito è: ‘stigrancazzi. In compenso la pecetta “real underrated U.S. grunge” è ancora lì, e ci rimarrà.)

Esistono dinamiche diverse per ogni aspetto della comunicazione fra produttore e consumatore: non si può pretendere di entrare in un negozio di dischi così come si entra in un supermercato e sapere già esattamente cosa comprare, lista alla mano. Cioè: puoi farlo, puoi farlo alla grande, certo che puoi farlo, ma non ci andremo mai insieme, perché per me non funziona così e soprattutto tendo a non fidarmi di chi ha già razionalmente inquadrato il raggio d’azione del proprio desiderio. Con te verrò da un ferramenta, probabilmente, ma non in un negozio di dischi: un negozio di dischi è un luogo antropico a metà fra un parco dei divertimenti e il salotto dell’analista che desideri avere e che non puoi permetterti, è un posto dove conosci delle parti di te che non ti aspetti e a cui non stavi proprio pensando – a te stesso, alle tue parti, a questo gruppo che fa un disco nel 1992, con Jack Endino che prende l’aereo da Seattle per andare a registrarli in uno studio sudicio di Boise (Idaho). Un negozio di dischi è un posto dove il meglio che ti possa succedere è che accada l’imprevisto, che te ne torni a casa con una bustina e un supporto digitale su cui c’è registrata della musica che non stavi cercando proprio per niente. (Tutto questo non può verificarsi su Amazon, ad esempio, e non ho voglia di dirvi il perché: su Amazon si possono trovare offerte, si può fruire di un servizio clienti coi controcazzi, si può accedere a tutta una serie di servizi e-commerce e blablabla, ma non possono scatenarsi certe dinamiche strambe, e punto.)

I cari vecchi negozi di dischi. Mi ricordo di Kangaroo e della Casa del Disco, a Vasto. Kangaroo, il posto dove ho preso tutti i CSI e i Marlene Kuntz (in giornate come questa che andare a scuola era semplicemente un insulto alla Vita), ha chiuso da qualche anno. La Casa del Disco è ancora aperta e continua a vendere un sacco di merda, bella esposta in vetrina: però ci avevo comprato The Piper At The Gates Of Dawn, in cassetta. Le cose comprate all’epoca magari adesso le ascolto di rado, ma posso stare certo del fatto che sono quello-che-sono anche grazie a loro (o per colpa loro; però almeno non sono uno stronzo che si fa le playlist su youtube, cristosantissimo – questo posso dirlo).

Anno Domini 2011: possibilità apparentemente infinite di snobbare i negozi di dischi e intasarsi decine di hard disk di terabyte di materiali musicali che probabilmente non ascolteremo mai se non per archiviare, archiviare, archiviare. Possibilità di scaricarsi il mondo, di seppellire intere realtà musicali a colpi di leak, di accedere a discografie corposissime con una semplice ricerca sui torrent. Non sto qui a fare del moralismo nostalgico, sto solo definendo delle differenze sostanziali di comportamento che a loro volta definiscono delle differenze sostanziali di ciò che si è. E io non sono un frequentatore abituale di negozi di dischi, ma non sono neppure uno scaricatore indiscriminato. Cioè: so bene che questa roba dell’accesso a tutto-proprio-tutto garantito dalla Rete è una ricchezza potenziale vastissima, e che Internet garantisce la democratizzazione dei processi di fruizione e via filosofeggiando. Ma so anche bene che è fisiologicamente impossibile stare dietro al tutto, e quindi ho deciso di applicare a tutto questo, e per quel che mi riguarda, la mia personale versione della decrescita felice:

  1. non scarico ad minchiam;
  2. scarico preferibilmente i free download messi a disposizione sui siti delle label o delle band;
  3. offro il mio obolo quando c’è da sganciare qualche euro via bandcamp (e questo mi dà una soddisfazione di gran lunga superiore alla misera soddisfazione di poter dire “l’ho scaricato a gratis”, come mi è successo l’altro giorno scaricando i Crash of Rhinos per due euro e trentatré, anche se avrei potuto scrivere “zero” nella casella dedicata, e anche se i Crash of Rhinos sono musicalmente ineccepibili ma un po’ troppo emo per i miei gusti);
  4. compro volentieri (ma non tanto spesso) i CD sul banchetto del merchandising dopo i concerti;
  5. la tecnologia è risorsa e mezzo, e dal suo avanzamento io devo trarre un profitto culturale e umano che non consiste solo nel guardare pornazzi in rete; il supporto è solo il supporto e alle volte – per questioni connesse a quell’innato bisogno di poesia e di possesso materiale che ci distingue dagli automi – può essere irrinunciabile; una discografia di sole cartelle mp3 andrà pur bene (soprattutto se sei nato nel 1995), ma la stessa discografia costituita anche da supporti inquinanti e difficilmente smaltibili e in costante obsolescenza da almeno dieci anni sa il fattaccio suo ed è molto meglio;
  6. la cultura musicale non serve per bullarsi con gli amici, né per portarsi a letto certe ragazze, tanto più che queste ultime vanno già a letto con persone mediamente incolte cui è bastato molto meno della discografia ragionata dei Silver Apples per affondare il colpo;
  7. so di non aver bisogno di tutta la musica che esce ogni santo giorno, e mi tengo strette le mie poche mitologie, muovendomi da esse per arrivare a zone imprecisate della mia vita interiore di ascoltatore, musicofilo, malato di musica, alienato;
  8. Il Passerotto.

Domani, 16 aprile, sarà il Record Store Day 2011: ci saranno uscite speciali e ristampe (qui c’è un pdf con una lista più o meno completa), caterve di sconti, eventi speciali. Ormai da una settimana Vitaminic ha messo su un centro operativo per monitorare molta parte del web e tenere d’occhio i contributi significativi per questa celebrazione. Da parte mia mi sono ricordato che in giro è pieno di gente cazzutissima, e quando vedi che il mondo è anche un gran bel posto non puoi che sentirti meglio. Quindi domani andrò da Radiation Records, mi fermerò per un’oretta a girare tra gli scaffali, senza una meta né un’idea precisa, alla ricerca solo di indizi nascosti e oscuri, e tornerò a casa con qualcosa di cui non saprò nulla finché non l’avrò messo nel lettore e spinto play. Questo sarà il mio umile contributo (d’altronde vaffanculo: pago 500 euro di affitto e lo sa il diavolo quanto preferirei spenderli in tonnellate di CD e libri), e sarò felicissimo di scoprire che ho convinto qualcuno di voi, là fuori.

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