CUCINARE STRANO: arrosto di marmotta nella steppa mongola

Nella steppa a ovest di Ulan Bator, dove la presenza dell’uomo raggiunge cifre del tutto irrilevanti e l’escursione termica fra il giorno e la notte è spaventosa, nella Mongolia che ancora circonda il vuoto metafisico del Gobi, deserto di poca sabbia e molta molta terraccia secca e arbusti che fossilizzano e ossa interrate di bestiosauri, potrebbe capitarti una battuta di caccia parecchio surreale. Figurati questo: mancanza d’alberi e terreno a gobbe, l’orizzonte circolare basso schiarito, il cielo compatto, un azzurro che non sai dire. In terra è invece verde, verde documentario.

L’indigeno, la tua guida, torna al fuoristrada. Il mezzo è assaltato da una ruggine millenaria, un quasi fossile, viene dall’era sovietica, monumento su gomme all’obsolescenza. La guida ne discende armato di fucile e cavalletto e di una strana maschera che tra poco gli vedrai attaccata in viso. Ha visto muoversi la prateria. Ha visto qualcosa liberarsi fra le zolle, in una lontananza di misura incalcolabile. La prospettiva senza punto di fuga, praterie vuote, a nord del Gobi.

Una maschera volpina, il muso di una volpe strappato e reso sembianza. Il seminomade mongolo la tiene alta sulla fronte, inizia ad avvicinarsi alla marmotta. Non farà più di venti trenta metri, ma li farà ad un passo curioso, saltellando su un piede solo, muovendosi a scatti, dinoccolando la testa in maniera tutt’altro che naturale. Si avvicina di poco, ma il suo intento non è quello di arrivare alla preda. La tecnica è quella di farsi vedere, non di nascondersi. Il rituale prevede di far leva sulla paura della preda, di approfittare del suo terrore: la marmotta vede ciò che interpreta come una volpe in caccia, e si irrigidisce puntandola, non si allontana ma si blocca, fissa la volpe perché da qualche parte in natura c’è scritto che la volpe capirà che la marmotta non ha paura, e se va tutto bene non succederà nulla, ognuno per la sua strada e amici come prima. Però la catena alimentare è una ruota crudele: mentre la marmotta sta immobile e gagliarda ad esporre alla volpe la sua mancanza di paura, la volpe si sdraia a terra e sistema il fucile sul cavalletto. Poi spara, e vaffanculo alla marmotta.

Come si cucina l’animale, è questo il bello. Prima si trancia di netto la testa, poi si ficcano le mani dentro il corpo della bestia, facendole passare dalla base della testa mozzata, per estrarne le interiora da buttar via. (Nel frattempo si riunisce la famiglia allargata della guida.) Adesso al posto della testa c’è un buco, un cratere, e il corpo del roditore non è altro che un sacco di pelle e ossa pronto per il fuoco. La marmotta si cucina cuocendola dall’interno: nello stesso buco vengono fatte passare delle braci ardenti, una brace alla volta, dentro il corpo della bestia, facendo attenzione a non scottarsi. Quando il corpo è pieno di braci, si richiude il cratere dove c’era la testa, strozzando i lembi di pelle con del fil di ferro di quello spesso. Se serve, ci si aiuta con una tenaglia. Bisogna fare comunque molta attenzione. Non è più un corpo, il corpo dell’animale, è solo la funzione del suo stesso cuocere. Il processo di cottura genera vapori e gas che lo gonfiano, e ogni tanto la guida va ad allentare la stretta del fil di ferro per svuotare questo vapore in accumulo. Quello che era l’animale si è trasformato in un’otre piena di fuoco enterico. Adesso poi è facile eliminare ciò che resta della pelliccia scrudita, e poi muovere il coltello fino a lisciare la pelle nuda secca, finché quello che era un ratto di prateria non somiglia più a niente. (A una vescica, forse. A uno scroto. A niente.) Si sprigionano dei piccoli geyser che puzzano di intestino di roditore. La guida posa questa cosa piena di fuoco vicino al fuoco, ora bisogna attendere un paio d’ore.

Dopo aver inciso il sacco di carne nella zona che era l’addome, si tirano via le braci ormai fredde e ingommate. Poi le cose avvengono e si mangia: la carne la si strappa a mano, a partire dalle costine. Che roba: costine di marmotta mongola cucinata dall’interno. La consistenza è simile a quella dei copertoni del fuoristrada sovietico che continua a scrostarsi sotto il sole. La pietanza viene passata di mano in mano. Pare che la marmotta sia l’unico animale che possa trasmettere la peste bubbonica, e il rischio non scompare dopo la cottura.